martedì 14 luglio 2015

DisIntegrazione

Ho vissuto per molti mesi a stretto contatto con una coppia di profughi - poi diventata famiglia -  arrivata in Italia durante l’esodo del 2011, quando dalla Libia devastata dalla guerra arrivarono circa ventitré mila persone di ogni nazionalità.
Nonostante al mio petulante domandare abbiano sempre risposto di non aver sborsato un centesimo, durante le goffe chiacchierate è spesso emerso che tutto ciò che avevano dopo aver venduto tutto era l’equivalente di duemila euro dei quali trecento - tutti quelli rimasti (da cosa?) - persi durante la traversata.
Due più due, insomma, fa sempre quattro.
Entrambi maliani, sono finiti in Libia dopo una serie di peripezie per cercare una vita degna di questo nome. E così fu, almeno per un po’.
Almeno sino a quando Gheddafi non venne ucciso da alcuni elementi del CNT (Consiglio nazionale di transizione), citando la versione ufficiale.
Una seconda versione, invece, vuole il generale ucciso da un agente dei servizi segreti francesi al fine di mettere a tacere ogni possibile fuga di notizie sulla ricca partecipazione libica nelle campagne elettorali di Sarkozy.
Niente di confermato, s’intende...
A seguito di questi avvenimenti, i due giovani arrivarono qui con i soli vestiti che avevano indosso, molta paura e una bimba che sarebbe nata da lì a qualche mese.
Come molti altri, passarono prima dai centri accoglienza per essere poi temporaneamente posizionati in un appartamento di un palazzo di proprietà di un comune brianzolo.
A loro, come ad altri, venne dato di tutto: dalle mutande alle pentole, passando per i buoni spesa e le bollette pagate.
Per loro era l’America, per tutti quelli che sanno solo dare aria alla bocca era “A quelli tutto e a noi nulla” - e trova un modo per dargli torto, poi - mentre per me, invece, era pura follia.
Io, in fondo, non avevo nessun dovere nei loro confronti: per me, infatti, sarebbero potuti essere solamente una coppia come tante con la sola caratteristica di condividere il pianerottolo con la mia vecchia nonna.
Di fronte a quella che ho da subito considerato una mancanza da parte delle varie istituzioni, tuttavia, non ho potuto restare impassibile.
Passavo molte giornate a chiacchierare in un inglese malconcio con una ragazza della mia stessa età che non sapeva nemmeno cosa fosse la neve o l'ombrello e che mi raccontava di case costruite in cacca di mucca.
Le ho insegnato l’italiano, ho provato a parlarle della storia dell’Europa e ho provato ad allontanarla dalla convinzione che la mia pelle color mozzarella non fosse meglio della sua.
Non è stato nemmeno necessario che entrasse fortuitamente in contatto con forme di razzismo: già nel loro Paese d’origine vivono con la convinzione di essere inferiori a noi, solo per il colore della pelle, tanto da usare strani preparati per rendere la pelle temporaneamente bianca.
D'altronde, anche una volta arrivati qui, nessuno si è nemmeno occupato di scoprire se avevano delle qualche capacità particolari, si da forse per scontato che siano tutti degli imbecilli?
Eppure la giovane sarebbe stata un’ottima sarta e il ragazzo un ottimo cuoco, ma per identificare le loro attitudini sarebbe servito dar loro troppa attenzione di qualità.
Ho provato a spiegarle poi, nonostante la mia inesperienza, che avere una bambina in grembo avrebbe significato una grande responsabilità. Ma vai a spiegarlo ad una ragazza ventenne che sembra aver trovato il paradiso terrestre…
L’Italia, nonostante tutti i suoi difetti, ha servito a queste persone la vita su di un piatto d’argento: niente lavoro, una bella casa, la TV o la radio sempre a disposizione.
Niente priorità, niente problemi e nessun futuro.
La mia voce, in questo mondo del tutto caotico ma silenzioso, non è bastata.
È stata però la sola dal momento che le persone a cui era stata affidata sono state certo capaci di ricoprirla di ogni frivolezza ma devono essersi scordate qualche pezzo fondamentale.
Arrivò al parto del tutto impreparata e di quelle persone, le sole sulle quali avrebbe dovuto fare affidamento, nemmeno l’ombra.
Solo che quelle persone, in quel momento, non erano altro che lo Stato.
Passai una nottata decisamente insolita: divisa tra un’infermiera che non capiva un’acca del francese/inglese/maliano/italiano del futuro papà e mia madre che, disperata per l’ora tarda, tentava comunque di star vicino alla ragazza dolorante e spaventata.
Quella giornata passò come le successive, la famiglia venne continuamente ricoperta di ogni utilità e inutilità, la bimba iniziò a crescere e i grandi a diventare bambini.
Dalle scale mobili alle scuole, da internet alle biblioteche, dalle automobili moderne alla metropolitana: per loro, abituati a spostarsi da una zona all'altra con una barchetta, era tutto nuovo e bellissimo.
Dove potevano trovare la voglia di fare i genitori quando c’era tutto un mondo da scoprire?

Dopo più di un anno, finalmente, lo Stato sembrò redimersi provando ad insegnare l’italiano servendosi di una maestra di sostegno ben poco premurosa e convinta di essere davanti a due idioti.
Dopo un mese e quattro incontri se ne decretò la fine. Fallimentare.
Osservare immagini di animali cartoon e ripetere il loro nome doveva sembrare “stranamente” noioso a due ragazzi che avevano alle spalle ben altri problemi…
A quel punto, lo Stato passò dall'insegnare la lingua ad un controllo delle nascite degno della peggior distopia autarchica: visita medica e prescrizione della pillola anticoncezionale.
Chiaramente, non sapendo loro l'italiano, a cosa sarebbe servito esporre alla giovane che stava per assumere una pillola anticoncezionale e cosa essa avrebbe comportato?
Nonostante l'etica discutibile di tale idea, il fallimento aspettava dietro l’angolo: dopo poco si venne a sapere che un bebè sarebbe nato da lì a poco.
Non posso far a meno di pensare che la strada che ho percorso con Aisha e Hakim, dall'incontro casuale sul pianerottolo di mia nonna alla loro partenza per la Germania, in cerca di un vero futuro, è solo una delle decine di migliaia di strade percorse da altri che avranno incontrato non dissimili difficoltà.
Ma quante di queste persone hanno trovato qualcuno che arrivasse prima dello Stato? E quante di quelle persone che si sono sentite in dovere di far qualcosa davanti a tale scelleratezza si sono sentite prese in giro in quanto cittadini e impotenti in quanto esseri umani?

Mi sono avventurata in questo discorso perché qualche giorno fa, passando per la stazione centrale di Milano e incrociando lo sguardo dei profughi accatastati sulle panche e sui pianerottoli, non ho potuto fare a meno di pensare che stiamo commettendo di nuovo lo stesso errore seppur con differenti modalità.

Integrare non significa regalare mutande alla moda. Accogliere non significa sfamare uomini come fossero animali scappati da uno zoo.

In quei tanti mesi di cui raccontavo prima, ho spesso pensato come fosse possibile che una società sviluppata come la nostra non potesse comprendere cosa fosse davvero il vivere civile.
Prima di allora, davo per scontato che persone con una preparazione di settore potessero arrivare a capire che non basta trasportare un uomo dalle case fatte di sterco e acqua in una casa con ogni tipo di comfort per renderlo uguale ai nuovi concittadini.
Favorire l’integrazione in una nuova società è qualcosa di molto complesso, soprattutto se l’ambiente d’origine è nettamente sotto sviluppato rispetto al nuovo.
L’accoglienza, quindi, dovrebbe essere vista sia come momento di “soddisfazione” di tutti quei  bisogni più primitivi sia come punto di partenza per illustrare limiti e possibilità.
Non è infatti elargendo denaro, possibilità smisurate o compensi senza motivo che otterremo una società multietnica o un buon grado di integrazione.

Il fine delle leggi non è tanto di cercar la verità delle cose e speculazioni, quanto la bontà de' costumi, profitto della civilità, convitto di popoli e prattica per la commodità della umana conversazione, mantenimento di pace e aumento di republiche.

In linea con questo pensiero tratto dalle lettere di Giordano Bruno, sono convinta che non possa esistere una società civile in cui non vi siano regole rispettate da tutti, senza discriminazione alcuna.
L’assenza di ciò non può fare altro che catapultare il Paese che accoglie nel caos più totale e nella perdita di identità.
Niente di diverso da ciò che sta accadendo in questo momento storico e le conseguenze di tutti questi errori sono infatti ben visibili oggi: di quei ventitré mila profughi molti sono andati all'estero, molti vegetano ancora in case o hotel sovvenzionati dallo Stato, alcuni delinquono e qualcuno lavora. Ma noi? Noi italiani, od europei, ci vediamo costretti a vivere tutti i giorni a stretto contatto con l’inciviltà e l’impotenza davanti a quest’ultima.
Purtroppo poi, l’ignoranza è tanta e l’insofferenza e l’intolleranza crescono di conseguenza.
Ma come dare torto ad un cittadino che non si sente tutelato né, tanto meno, rappresentato da uno Stato che fa del suo ruolo solo l’oggetto di qualche campagna politica? Come esplicare a quello stesso cittadino che il problema non è l’immigrazione in sé ma è la mancanza dello Stato?
Come spiegare che quando lo Stato si riempe la bocca parlando di diritti dell’uomo intende - o, almeno, dovrebbe - anche quelli di quell'uomo che non si sente più cittadino della propria Nazione?

Impossibile o, almeno, decisamente difficile.
In un clima come quello che si è attualmente creato verrà sempre ritenuta più incivile una donna che gira con il velo piuttosto che un anziano che sale sul treno senza documento di viaggio.

Due pesi, due misure.

Nonostante questa difficile situazione, però, la soluzione è a dir poco banale.
In molti Paesi la chiamano legge, giustizia… Qui, oramai, è “quella sconosciuta”.









giovedì 11 giugno 2015

Uno sguardo ad Expo

Ricordo il giorno di apertura di Expo con molta amarezza: nonostante il mio neonato entusiasmo, ho dovuto assistere impotente alla manifestazione della più folle follia di esseri che, pur di ottenere senza fatica un posto in questa società, sono disposti a mettere a fuoco e devastazione il loro Paese.
Milano, però, si è coraggiosamente rialzata in un batter di ciglio come, mio malgrado, anche le acute osservazioni di una buona parte di giornalisti.
C'è chi si è lamentato per l'incompletezza di alcuni padiglioni, chi per l'organizzazione e chi ha fatto del prezzario del cibo in Expo un vero e proprio caso di Stato.
Sul finire della prima settimana d'apertura, l'apoteosi del terrorismo: ad Expo non ci sono contenitori per il vetro, non ci sono posacenere per i fumatori, niente panchine e le case dell'acqua non funzionano!

Fortunatamente e come mai prima d'ora, però, il fanciullino che è in me ha continuato ad aspettare impaziente di vedere cosa fosse davvero questo Expo.

Credo di poter fare mio il pensiero esposto da Beppe Severgnini durante una pausa caffè a Casa Corriere : "L'Expo è il mondo come vorrebbe essere ma non è in grado di essere".
Lasciando da parte la particolarità architettonica di tutta la struttura, dai padiglioni al decumano, ho vissuto una giornata passando da una parte del mondo ad un'altra, osservando le più svariate culture immergersi senza problema alcuno in altre completamente diverse da loro.
Globalizzazione e incontro ma, più semplicemente, umanità che può manifestarsi senza problemi di colore, partito o religione.
Expo apre le porte la mattina come un grande e moderno museo dei popoli a cielo aperto per poi trasformarsi in una vera e propria festa con l'andare della giornata.
Stupendo,poi, è il connubio tra il ricevere informazioni in modo del tutto classico e
l'interattività sensoriale dell'intera esposizione.
Tutto ciò, chiaramente, con i propri pregi e difetti.
Infatti, sebbene i padiglioni siano tutti davvero belli, alcuni hanno perso per strada lo  spirito di questo Expo palesando un enorme fuori tema. Ma nulla di grave: ci si diverte moltissimo anche sulle altalene estoni sebbene l'argomento alimentazione non sia nemmeno lontanamente trattato e, in fondo, può servire a maturare un briciolo di spirito d'osservazione che non guasta mai.
Ma torniamo alle tante critiche.
La mancanza di panchine sul decumano è evidente: le persone più anziane potrebbero aver bisogno di rilassarsi un attimo durante la lunga passeggiata.
Evidente è anche la poca illuminazione serale al di fuori del decumano e dei luoghi animati dalla musica.
Mancanze tranquillamente rimediabili.
Altri difetti? In tutta sincerità non ne ho visti.

Non in Expo, per lo meno.
Il vero difetto è non volere rendersi conto di ciò che stiamo ospitando: molti italiani non avranno né un'altra occasione per vedere un'Esposizione Universale né, per di più, di vederne una in casa loro.
Si può amare l'Italia o odiarla, si può vederne i tanti difetti, si può essere del tutto stanchi o pieni di propositi per il futuro… Expo è, però, al di sopra di tutto ciò.
Questo avvenimento non è una fiera come tante, non è un museo o una mostra, non è nulla di conosciuto ma è sicuramente unico ed irripetibile e questa sua essenza non è di certo dovuta alla struttura organizzativa (più o meno ben fatta, che dir si voglia).
La specialità è insita, infatti, in noi visitatori: dipendentemente dallo sguardo, dallo spirito critico o dallo scetticismo con cui si decide di visitare Expo, ogni visitatore ne uscirà arricchito da un'esperienza del tutto personale e non descrivibile con un semplice aggettivo.
Largo all'entusiasmo o ai dubbi, insomma, ma di corsa in Expo!

giovedì 4 giugno 2015

Siamo davvero tutti Charlie Hebdo?

Lo studio delle humanae litterae, più semplicemente detto Umanesimo, si è affermato nel lontano periodo del Rinascimento italiano ed europeo.
Scostandosi nettamente da quello che era il sentire medievale, ad inizio del XV sec. si è iniziato a porre l'uomo al centro dell'universo.
Così, attraverso le scienze, l'uomo non avrebbe più avuto bisogno di sottostare a Dio o a leggi pseudo divine cessando quindi di essere solamente una marionetta manovrata da un dio più o meno magnanimo: la caratteristica per cui l'essere umano si differenzia da tutti gli altri esseri viventi, la coscienza, viene esaltata sino a percepire - finalmente - l'uomo come artefice del suo stesso destino.
Da quel momento è una corsa sostanzialmente in discesa: dalla filosofia alla medicina
sembra non esserci un momento d'arresto.

Almeno sino ad inizio 2015.

7 gennaio: al grido di "Allah è grande", due uomini armati di tutto punto hanno attaccato la sede parigina di Charlie Hebdo.
Dodici morti, molti feriti, tanta paura e troppo silenzio.

Certamente non è della disinformazione che parlo: giornali e TV non hanno tardato a far della notizia la tragedia del momento.
Sono passati poi giorni, edizioni speciali ed internazionali del giornale satirico francese, direttori di giornali apparsi in video anziché sul proprio quotidiano e continue minacce ad un'Europa succube e silenziosa davanti a questo nuovo demone che si fa chiamare Isis.
Ora, dopo quasi sei mesi, rimane solo qualcuno che lascia ancora qualche fiore nei pressi della decimata redazione.
Cosa resta, invece, di quell'identità europea figlia dell'Umanesimo?

Nonostante alcuni momenti di inaudita follia, l'Europa è sinonimo di civiltà e di cultura e, sebbene la legalità sia probabilmente un'utopia, abbiamo abbandonato lo stato di inciviltà molti secoli fa.
Dovremmo rifiutare fortemente qualsiasi forma di barbarie compiuta nei Nostri territori, soprattutto se figlia di ignoranza, insensata idolatria e di una società in cui a molte donne – giusto per fare un esempio – è permesso guardare il mondo solo da dietro una rete.
Non si assiste, però, a nulla di tutto ciò.
Appena accaduto il disastro di Charlie Hebdo, avrei sperato in qualche discorso da parte del mio o di altri Capi di Stato, rassicurazioni o punti della situazione. Ma nulla.
Allo stesso modo, tra la gente ho udito tante chiacchiere e tutte con un unico denominatore comune che, sorprendentemente, non era la paura ma una strana forma di indifferenza.

“Lontano dagli occhi, lontano dal cuore”

Se il timore è del tutto lecito e concesso, inammissibile è accettare questo modo del tutto solitario di vivere: una forma di asocialità conseguenza del rifiuto della società attuale.
Eppure, per quanto non ci piaccia, ognuno di noi è parte di un tutto che, in questo caso, si chiama Italia, Francia, Germania… Europa, insomma.
Per quanto non ci si riconosca nel modus operandi di chi ricopre le tante poltrone, anche la storia presente è un nostro operato - proprio di tutti, sì -  e rivendicare o difendere la Nostra identità è un diritto ma, soprattutto, un dovere morale.
Chissà che, così facendo, qualcuno si ricorderà che c'è anche altro a cui badare oltre all'orto di casa propria.